Senza sconti ne' speculazioni

Una franca intervista a Giulio Andreotti

 

Melchiorre Briguglio / La Gazzetta del Sud

Nell’ormai vasto panorama dei processi contro i protagonisti della cosiddetta prima Repubblica, il primo posto tocca sicuramente a quello nei confronti di Giulio Andreotti.

La decisione del Gup del Tribunale di Palermo di disporre il rinvio a giudizio, sotto la pesante ed infamante accusa di concorso in associazione per delinquere di stampo mafioso, è la prima tappa di un prevedibile lungo percorso giudiziario.

Una vicenda processuale, nella quale l’ex leader Dc si giocherà l’enorme patrimonio di credibilità interna ed internazionale e la pubblica accusa cercherà di dimostrare di non essere rimasta abbagliata da intuizioni e di non aver dettato teoremi ma di aver ricostruito obiettivamente le dichiarazioni di un gran numero di collaboranti. Dopo una defatigante e minuziosa indagine, chiamata “Oceano”, i Pm hanno affidato le valutazioni finali a “sole” 1589 pagine, suddivise in otto capitoli, affermando infine che “Andreotti deve ricordare, sempre, che lui e Riina sono stati, sono e saranno sempre la stessa cosa”.

La difesa ha sottolineato le “acrobazie logiche”, le “incursioni” dei giudici “all’interno degli uomini”, guidate non dalle “idée”, ma dalle “ideologie”, affermando con l’avv. Edoardo Ascari che “mai un ciclopico sforzo investigativo ha avuto risultati così deludenti”.
Queste contrastanti conclusioni riassumono il senso ultimo di un bel libro (Io e la mafia – Le verità di Giulio Andreotti)
del giovane ed abilissimo giornalista Antonio Nicaso, che ha richiamato i momenti salienti dell’accusa e della difesa ed ha sottoposto il sen. Andreotti ad una lunga intervista.

Diciamo subito che l’autore non vuole anticipare nessun giudizio. Non prende parte e non strizza l’occhio a nessuno. Non cerca la verità, poichè sa che questo non è il suo compito, nè vuole affidare questo sforzo al lettore.

Da cronista corretto ed attento cerca i fatti e i simulacri dei fatti ed offre chiavi di lettura, senza fare sconti, nè speculazioni.

Ripercorre velocemente le tappe dell’inchiesta, secondo la quale la conferma in Cassazione degli ergastoli del primo maxiprocesso di Palermo segna l’inizio della resa dei conti tra mafia e politica.

Quando questi “poteri” si equilibravano e convivevano, Andreotti aveva il ruolo di referente “romano” di Cosa Nostra ed aveva anche lo specifico compito di pilotare le decisioni della Cassazione, ricevendo in contropartita sacche di voti. Sullo sfondo, appaiono legami inquietanti tra i delitti Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa che si intrecciano per volere di un’entità.

Il sen. Andreotti rifiuta questo ruolo, rivendicando che nel 1968 -  quando conobbe Lima – aveva già ricoperto, per tanti anni, incarichi ministeriali ed era già un politico molto influente, da non avere bisogno di fare incetta di voti. Nega, poi, con amarezza e sdegno qualsiasi collegamento con tali delitti e chiede di sapere quale processo avrebbe pilotato.

Antonio Nicaso lo interroga senza complessi. Sa di non avere davanti madre Teresa di Calcutta, ma l’abilissimo protagonista di quasi mezzo secolo di vita pubblica, che anche qualche suo ex compagno di cordata chiamava “Santo nega” per la capacità forse arbitrariamente attribuitagli di non dire la verità. E gli sbatte in faccia – ad una ad una – tutte le tesi al vetriolo dell’accusa. All’intervistato che si dichiara coerente, approfondito e disposto all’ascolto, che ammette di non essere un angelo, contestando però di provenire dal “circolo dei tenutari di bordello”, Nicaso non offre mai parole di conforto, ma lo spazio di dire, senza commenti d’appendice.

Andreotti rifiuta il processo alla Dc, l’unificazione di questo partito con la mafia, quasi che tutti gli altri uomini politici fossero appartenuti “all’ordine dei francescani e dei domenicani”. Ammette i compromessi possibili della politica, non i delitti per la politica e rivedica una serie di iniziative antimafia, contestando che gli fossero state imposte. Non una parola contro i suoi giudici nè contro l’”istituto” del pentitismo, ma tante contro – a suo dire – le menzogne di taluni pentiti, “impuniti”, come venivano chiamati nello Stato pontificio.

In disarmonico contrappunto vengono citati nelle pagine del libro, da un canto i nomi di De Nicola, Einaudi, Moro, Dalla Chiesa, Mattarella, Chiaromonte, Pellegrino, e dall’altro quelli di Buscetta, Mannoia, Di Maggio, Mutolo, Messina, Marchese, La Barbera, Cancemi e Manciaracina. Protagonisti i primi della storia che leggeremo sui libri e gli altri di quella che andremo a leggere nelle sentenze.

Nessun commento, neppure quando l’intervistato nota che a 76 anni bisogna guardare alla via d’uscita e che “nessuno è andato in paradiso in carrozza”, a sottolineare la difficoltà, quando meno, di avere il tempo necessario per difendersi. Poi, con uno sforzo di speranza e un rigurgito d’orgoglio, l’intervistato promette che alla fine scriverà un libro “Cosa loro”, e che riuscirà  a “venire a capo di questa dolorosa trama”.

Nicaso si congeda da Andreotti e dai lettori con un semplice “Auguri, senatore”. Parole che non si dovrebbero negare proprio a nessuno.

1995